Il referendum del 4 dicembre

Tra meno di una settimana gli italiani decideranno se cambiare forma di governo. In caso di vittoria del Sì, ci vorrà però ben più di una settimana per capire in che modo avverrà tale cambiamento. La  forma di governo di qualsiasi nazione dipende infatti, in egual misura, dal sistema istituzionale e da quello elettorale. Osservando il primo si capisce quali sono le posizioni di potere (politico) previste dalla Costituzione, osservando il secondo in che modo verranno scelti coloro che andranno a ricoprirle.

Ad oggi, nonostante l’intesa sulla proposta Fornaro-Chiti – che comunque non dice niente sui 21 sindaci che dovrebbero far parte del Senato – non sappiamo come i sostenitori della riforma intendano eleggere i senatori (una ragione in più per pensare che sarebbe stato opportuno “costituzionalizzare”  la legge elettorale).

Non si può quindi sapere in anticipo se il nuovo Senato sarà uno strumento di tutela delle autonomie locali o un organo poco più che decorativo, chiamato a ratificare le decisioni della Camera. Non si può infatti far finta di non sapere che, qualora i senatori vengano nominati dai partiti, risponderanno del loro operato ai partiti e non ai territori. A tal proposito, va detto che la proposta Chiti prevede che in ogni collegio può essere presentato un solo candidato per ogni lista regionale, ossia che sia il partito a scegliere quali consiglieri regionali potranno diventare senatori (le cose sarebbero ben diverse se, ad esempio, in ogni regione si tenessero delle elezioni alle quali si possono candidare tutti i consiglieri o i sindaci che raggiungono un determinato numero di firme). In queste condizioni, per un federalista convinto di tremontiana memoria è difficile sostenere la riforma costituzionale.

Che lo spirito della riforma sia improntato all’accentramento dei poteri in capo al governo nazionale è del resto fuori discussione. Illuminanti a tal proposito le parole del Presidente della regione Veneto, Luca Zaia che, commentando la bocciatura della riforma Madia da parte della Corte costituzionale, ha difeso l’eccellenza del sistema sanitario veneto, dicendo tra l’altro che: «Il centralismo sanitario governativo ha ricevuto un duro colpo e noi, tanto per fare un esempio concreto, continueremo a nominare i direttori generali della nostra sanità invece che doverli scegliere all’interno di una terna “nazionale” dove poteva esserci anche qualche responsabile di certi sfasci in giro per l’Italia». Ancora più illuminanti sono state le parole di Renzi, che sempre a proposito di tale bocciatura ha parlato di paese bloccato dalla burocrazia, e, di conseguenza, ha invitato a votare Sì per rimuovere tale ostacolo (sul fatto che la riforma Madia e quella costituzionale facciano parte di un disegno unitario non ho mai avuto dubbi).

Le prestazioni sanitarie rappresentano uno degli strumenti più efficaci per misurare il grado di federalismo di una nazione. Ponendosi dal punto di vista dell’utente è infatti possibile disegnare una sorta di Curva del decentramento: più i servizi vengono garantiti dagli enti locali più il sistema è decentrato, e viceversa. In questo settore, la concorrenza tra sistemi regionali significa avere delle differenze ma anche delle eccellenze e, se le eccellenze sono davvero tali, il disagio del doversi curare lontani da casa viene più che compensato dalla speranza di una guarigione. Un discorso del genere è senz’altro un discorso liberale. Di conseguenza, anche per un liberale diventa difficile sostenere l’accentramento delle funzioni in capo al governo nazionale (d’altronde, federalismo e liberalismo sono due facce della stessa medaglia). Pertanto, sorprende che  Renzi, avendo maturato esperienze nel governo locale, voglia sacrificare il grado di autonomia dei territori.

Nessuno pensa che quello attuale sia un sistema istituzionale perfetto e che lo si debba difendere ad ogni costo. Personalmente non penso nemmeno che una vittoria del Sì sarebbe una catastrofe, anche perché non ritengo affatto sbagliata l’idea di dare a chi vince le elezioni gli strumenti per governare (e per farlo sarebbe stato sufficiente insistere sull’Italicum). Ritengo però insufficiente la riforma anche sotto questo profilo: pur non vedendo alcun rischio di deriva autoritaria, penso che se si rafforza il governo si debbano rafforzare anche le garanzie per i cittadini (ad esempio, introducendo il ricorso diretto alla Corte costituzionale) mentre al momento il sistema tutela più i gruppi che i singoli. Pertanto avrei preferito una riforma più partecipata, coraggiosa, liberale e  federale: ispirata alla concezione ascendente del potere e non a un centralismo ormai obsoleto.