La mezza riforma della P.A.

In merito al progetto di riforma della Pubblica Amministrazione, La verità – il nuovo quotidiano diretto da Maurizio Belpietro – ha scritto una cosa vera: «C’è un sillogismo tra il principio della riforma della dirigenza e il referendum costituzionale del 4 dicembre: accentrare tutte le funzioni in capo al Governo e così chi va a Palazzo Chigi decide su tutto». Si chiude con queste parole l’intervista di Sarina Biraghi a Bernadette Veca, direttore generale del ministero delle Infrastrutture, membro del Comitato dei manager di Stato che si oppongono al decreto.

Non si può infatti negare che l’unità d’intenti che accomuna la riforma costituzionale e quella della P.A. sia quella di dare al governo di turno tutti i poteri necessari a realizzare il suo programma. In quest’ottica, l’imparzialità della Pubblica amministrazione e il principio per il quale si accede agli incarichi pubblici tramite concorso, rappresentano degli ostacoli da rimuovere.

Chi ha scritto entrambe le riforme preferisce, con tutta evidenza, un sistema nel quale chi vince le elezioni decide a chi affidare il volante della macchina pubblica. Dal momento che, di fatto, questo già avviene,  iI vero obiettivo della riforma sembra quello di rimuovere i dirigenti di lungo corso: ossia coloro che avendo stipendio e carriera garantiti per legge sono talvolta indifferenti alle sollecitazioni del governo in carica. Nessuna legge può infatti incidere realmente sulla società se non viene applicata dai funzionari pubblici. Di conseguenza, una legge sgradita ai funzionari pubblici, pur fortemente voluta dal governo, rischia di restare lettera morta.

Sotto questo profilo, la riforma Madia si potrebbe considerare uno strumento per tutelare la volontà popolare. Nella visione di Renzi gli elettori scelgono un governo che governa. Se ottiene risultati verrà confermato, se non li ottiene andrà a casa. Impedire al governo di scegliere chi dovrà applicare le leggi significa sottoporlo al rischio di andare a casa per colpe non sue; nonché a quello di venire boicottato da coloro che, pur formalmente al “servizio esclusivo della nazione”, sono spesso distratti dai propri interessi professionali.

Al contrario, se diventa chiaro che a scegliere i dirigenti pubblici è chi ha vinto le elezioni non ci saranno scuse per i fallimenti. Pertanto, questo meccanismo dovrebbe spingere chi governa a scegliere davvero i migliori (o perlomeno a rimuovere senza esitazioni chi sta provocando dei danni).

D’altronde, il sistema costituzionale del concorso è in crisi da diversi anni. Da un lato si entra nella Pubblica amministrazione tramite le agenzie interinali, per poi attendere la stabilizzazione. Dall’altro lato, in alcuni settori come la scuola, chi ha maturato anni di esperienza da precario rischia di perdere il posto a favore di chi vince il concorso (e va anche detto che le capacità richieste per vincere un concorso possono essere diverse da quelle richieste per svolgere al meglio il proprio lavoro).

Non c’è dunque niente di scandaloso nell’idea che chi ha interesse a (ri)vincere le elezioni possa scegliere chi è in grado di aiutarlo a farlo (in questo modo i governi si concentrerebbero meno sulla propaganda e più sui risultati, perché se le cose funzionano è merito di chi governa e viceversa).

Peccato che la riforma costituzionale non si occupi di questi temi. Fin quando il sillogismo di cui parla giustamente la dott.ssa Veca resta nella testa del premier sarà infatti difficile superare le obiezioni di costituzionalità mosse al decreto Madia. Sarebbe servito più coraggio. Serve tutt’ora un’assemblea costituente in cui discutere anche di questo.

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