Per il Tribunale di Milano il referendum propone non una o più modifiche del testo costituzionale ma “una revisione organica della Costituzione”, cioè una riforma complessiva voluta da un legislatore in “funzione costituente” sulla quale l’elettore potrà solo esprimere un complessivo giudizio politico di ratifica al di là del consenso o dissenso sulle singole parti di essa.
A dirlo è lo stesso Valerio Onida. Intervistato dal Corriere , l’ex presidente della Consulta sostiene che l’unico Organo abilitato a compiere valutazioni di questo genere sarebbe la Corte costituzionale. La bocciatura del ricorso col quale chiedeva lo “spacchettamento” del quesito referendario sarebbe pertanto illegittima.
Sinceramente non mi risulta che al giudice ordinario sia impedito di entrare nel merito delle questioni di costituzionalità: al fine di decidere se sia o meno il caso di scomodare la Consulta. Se, ad esempio, al momento di scrivere il preannunciato ricorso in Cassazione, Onida si dovesse consultare con Zagrebelsky, quest’ultimo gli direbbe che è in atto una tendenza verso il controllo di costituzionalità diffuso, per cui ogni giudice deve conoscere e difendere la Costituzione in ogni grado di giudizio. Non è però il caso di entrare nel dettaglio degli aspetti processuali: anche perché non condivido l’atteggiamento di chi pensa che si debba parlare della Costituzione come si parla di un qualsiasi codice.
La costituzione è infatti un documento ibrido, nel quale, come direbbe Bobbio, s’incontrano diritto e potere. Come giustamente messo in evidenza dal giudice milanese (la dott.ssa Loreta Dovigo) il referendum del 4 dicembre non riguarda la legge (il diritto) ma la politica (il potere). Non potrebbe essere altrimenti. Nel nostro ordinamento il diritto si regge sulla Costituzione. Di conseguenza, non sarebbe logico pensare che la legge ordinaria possa prevalere sul documento fondamentale.
La scelta politica, come ogni scelta, non può essere che univoca. Anche su questo punto la decisione del giudice ordinario si mostra corretta. Il referendum non si può “spacchettare” perché i vari aspetti della riforma rientrano in un disegno unitario di cui si chiede l’approvazione o la bocciatura. Il nuovo Senato, ad esempio, non avrebbe senso senza la riforma del Titolo V e viceversa. Un’approvazione parziale finirebbe per creare non pochi problemi di coordinamento, per stravolgere l’intenzione di chi ha voluto la riforma e, sopratutto, renderebbe impossibile votare in maniera consapevole. Al momento di dire Sì al nuovo Senato non potrei sapere se vincerà il No sul Titolo V e via dicendo.
La scelta del 4 dicembre non si presta ai cavilli. L’alternativa è tra rafforzare il potere di chi vince le elezioni o mantenere l’attuale assetto dei contrappesi istituzionali. In altre parole si può dire che la scelta è tra un sistema più veloce e meno prudente e un sistema che obbliga alla riflessione limitando le possibilità di errore.
Tra i contrappesi che vengono indeboliti vi è anche il potere delle regioni. Qui la scelta è tra un sistema che tende all’accentramento e uno che valorizza l’autonomia territoriale. Non avrebbe infatti senso rafforzare il governo centrale senza indebolire i governi locali. Su queste due alternative siamo chiamati a dire un solo Sì o un solo No.