Ferruccio De Bortoli ha rilanciato il tema della legge sui partiti politici. Secondo l’ex direttore del Corriere si darebbe così attuazione all’art. 49 della Costituzione, finora rimasto sulla carta per motivi legati alla: “preoccupazione — non infondata specialmente negli anni più bui della guerra fredda — di un’invadenza dello Stato e dei governi ai danni della libertà politica e del diritto d’opinione”.
il ragionamento si basa dunque sui seguenti presupposti: la costituzione prevede una legge che non è stata attuata, per ragioni di opportunità politica ormai venute meno. Di conseguenza, è il momento di approvare una legge sui partiti.
Personalmente non penso che la preoccupazione di un’invadenza dello Stato ai danni della libertà politica e d’opinione possa venir meno. Così come, leggendo l’art. 49 ( “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”) non trovo per i partiti alcuna disposizione simile a quella prevista dall’art. 39 sui sindacati (È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica).
Per la nostra Costituzione – a differenza di quanto prevede l’art. 21 della Legge fondamentale tedesca – è sufficiente che i partiti rispettino le regole democratiche (ossia che partecipino alle elezioni e ne accettino i risultati) al momento di competere per determinare la politica nazionale. Pertanto, le uniche leggi sui partiti previste dalla Costituzione riguardano il procedimento elettorale (raccolta delle firme, deposito dei simboli, requisiti per l’eleggibilità ecc…).
Una legge sui partiti, pertanto, non solo non è prevista dalla Costituzione ma potrebbe anche essere vista come un limite alla libertà politica, dal momento che i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente: liberi di scegliere se e come associarsi.
In altre parole, siamo davvero sicuri che servano nuove regole sui partiti politici?
Secondo De Bortoli servono eccome, anche perché: “Oggi, in mancanza di garanzie statutarie, i dissidenti sono spesso costretti alla scissione”.
A dire il vero, dalle cronache degli ultimi anni il problema principale non sembra tanto quello di chi sceglie di andar via (la scissione) ma quello di chi viene costretto a farlo (l’espulsione).
In termini più generali, ci si dovrebbe chiedere se sia oggi necessario riconoscere l’esistenza di un diritto di partecipazione politica, in modo tale da tutelare il singolo che decide di iscriversi a un partito. In tal caso la formula costituzionale si potrebbe leggere in modo parzialmente diverso, ad esempio: Associandosi in partiti, i cittadini sono liberi di concorrere alla politica nazionale. Ponendo così l’accento sul diritto del singolo ad esprimersi politicamente e alla tutela della sua opinione.
Il discorso è estremamente complesso, e, come osserva giustamente De Bortoli, legato alla legge elettorale: “Se si vuole tutelare la democrazia rappresentativa, occorre rendere meno oscure e insindacabili le liste dei candidati o dei nominati che i leader dei partiti propongono agli elettori. Come sono selezionati? Per meriti o per fedeltà? Quali competenze hanno? Chi li finanzia?”.
Sotto questo profilo è infatti evidente come siano venute meno le tutele, sia pure implicite, che il sistema proporzionale puro, senza soglie di sbarramento, assicurava alle minoranze interne ai tempi della c.d. Prima repubblica.
A quei tempi ogni partito rappresentava un diverso modo di concepire lo stato, e il sistema elettorale consentiva a queste opinioni (perlomeno a tutte quelle che avevano un minimo di seguito) di trovare posto in Parlamento. Il sistema delle preferenze consentiva poi di rappresentare tutte le componenti del partito. Solo quando questo duplice meccanismo di rappresentanza entrava in crisi si poteva arrivare a una scissione. In tal caso, agli scissionisti non restava che partecipare alle elezioni per vedere riconosciuta – e tradotta in seggi – la bontà delle loro opinioni e la fiducia nella loro capacità di sostenerle.
Queste condizioni si verificavano assai raramente almeno fino agli anni 90, da quando, col passaggio al maggioritario e, in seguito con l’introduzione delle liste bloccate, alle minoranze interne non resta che sperare nella benevolenza dei capi partito: per avere un collegio sicuro o una buona posizione in lista (il tutto a scapito del diritto di scelta degli elettori). Al momento, l’alternativa a tale benevolenza – specie in alcuni casi – è la decisione di andar via da soli (scissione) o farsi accompagnare alla porta (espulsione).
Messa in questi termini sembra davvero necessaria una legge. Una legge che dia più diritti ai cittadini e non si limiti a dettare nuove regole per i partiti. Una legge che non darebbe attuazione dell’art. 49 ma riconoscerebbe l’affermazione del diritto alla partecipazione politica. Un diritto che riguarda ciò che precede il procedimento elettorale. Potrebbe essere un modo per mettere i partiti al servizio dei cittadini e non viceversa.
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