Per il Wall Street Journal l’esito del referendum sulla riforma costituzionale italiana avrà sul futuro dell’Unione europea un impatto superiore a quello della Brexit. Questo perché la vittoria del sì renderebbe finalmente possibili le riforme economiche di cui l’Italia ha bisogno. In questo modo, il nostro Paese, che, a differenza della Gran Bretagna, ha adottato l’Euro e non si è mai sottratto ai vincoli comunitari, potrebbe rilanciare la propria economia e, di conseguenza, le ragioni dell’Unione. In effetti, solo se i giovani italiani smetteranno di andare in massa a cercare lavoro a Londra e dintorni si potrà dimostrare agli inglesi che hanno sbagliato a scegliere la Brexit.
Il parere del giornale americano riflette l’opinione diffusa sull’incapacità dei nostri governi di tradurre in pratica i loro progetti. Ci sarebbero, infatti, troppi contropoteri capaci di porre il veto su qualsiasi prospettiva di riforma. Di conseguenza, è vista con favore una modifica del quadro istituzionale: che consenta alla maggioranza di governo di agire senza doversi preoccupare di ottenere i numeri in Parlamento (perché l’Italicum darebbe a chi vince le elezioni un numero di seggi tale da “blindare” l’esecutivo). Per lo stesso motivo, è vista con favore una riforma che permette a chi controlla il Parlamento di influire in maniera decisiva sulla scelta del Presidente della Repubblica, e sulla composizione della Corte costituzionale, ossia sugli altri poteri che possono influire sull’approvazione e sull’applicazione delle leggi.
Si può dire che il pragmatismo anglosassone permette di cogliere l’aspetto essenziale della riforma costituzionale, mentre il dibattito italiano si concentra su aspetti marginali della stessa, come la presunta riduzione dei costi della politica.
Ovviamente esiste l’altra faccia della medaglia. Dare maggiori poteri alla maggioranza significa togliere tutele alle minoranze. Fin quando questi discorsi restano nel campo della teoria è difficile coglierne a pieno l’importanza. Si pensi a cosa potrebbe succedere se, per far fronte con tempestività agli impegni comunitari, il governo decidesse di licenziare parte dei dipendenti pubblici (l’esperienza Greca insegna che non si tratta di un’ipotesi così remota). Oggi sarebbe quasi impossibile riuscirci (basti pensare che non si è riusciti a rendere definitivo nemmeno il blocco dei contratti), con la riforma sarebbe più semplice.
Inoltre, tra i contropoteri che vengono indeboliti ci sono le regioni. Si può dire che l’approvazione della riforma costituzionale metterebbe fine al tentativo di evoluzione in senso federale delle nostre istituzioni. Anche in questo caso c’è che dice che in questo modo si ridurranno gli sprechi (come se in tutto ciò che rientra nella competenza dello Stato non vi siano casi di cattiva gestione del denaro pubblico), come c’è chi dice che ridurre i poteri delle regioni sia un modo per indebolire i diritti di chi vi abita.
In definitiva, ci si deve chiedere se dare più poteri al governo sia un modo per rafforzare o indebolire i cittadini italiani. La scelta referendaria riflette la differenza tra due modi di affrontare i problemi: tra chi pensa che sia più importante decidere in tempo utile (accettando il rischio di commettere degli errori) e chi invece ritiene più importante evitare decisioni sbagliate (accettando il rischio che stare fermi si riveli un errore).
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