Archiviate, salvo imprevisti imprevedibili, le ipotesi di elezioni anticipate, i partiti si preparano all’appuntamento con le urne previsto per la primavera del 2018. Per la Camera dei deputati si voterà molto probabilmente con l’attuale legge elettorale, che prevede il premio di maggioranza – l’assegnazione di seggi extra – per chi raggiunge almeno il 40% dei voti. Ancora incerto il sistema elettorale del Senato, che non può comunque avere un premio di maggioranza come quello della Camera (per la Costituzione il Senato è eletto su base regionale e non nazionale). Di conseguenza, nonostante i proclami, l’unico modo per avere una legge elettorale omogenea consiste nell’abolizione del premio di maggioranza. Premio che, tra l’altro, al giorno d’oggi non sembra interessare più di tanto ai partiti, come dimostrano le vicende interne al Pd.
Il partito democratico sembra, infatti, aver rinunciato in partenza a correre per l’assegnazione del premio di maggioranza: quasi che il 40% ottenuto alle elezioni europee sia stata un’anomalia alla quale porre rimedio a colpi di scissione. La stessa candidatura di Orlando alla segreteria sembra orientata all’abbandono della vocazione maggioritaria, per tornare a più miti propositi di trattativa post-elettorale (unico sistema, tra l’altro, previsto dalla Costituzione vigente).
La voglia di correre divisi, per riunirsi eventualmente a urne chiuse, sembra prevalere anche nel centrodestra. Non a caso viene contrastata la leadership di Matteo Salvini: nome poco spendibile nell’ottica di un governo di larghe intese.
Tenendo presente come perfino il Movimento5Stelle potrebbe preferire un altro giro di opposizione al “rischio” di dover governare, l’esito più probabile delle prossime elezioni sembra davvero simile a quello del 2013: un Parlamento diviso in tre gruppi e un governo che si può formare solo con l’accordo tra almeno due di loro (o con la “migrazione” di alcuni parlamentari in direzione governativa).
Al momento, l’unico elemento che sembra in grado di scompaginare questo schema, è l’effetto Trump (a maggior ragione se la Le Pen dovesse vincere in Francia). Ossia, un voto di protesta che consegna ai 5Stelle la maggioranza – con o senza premio – di entrambe le camere.
Donald Trump e Marine Le Pen sono però due singoli che possono prendere impegni in prima persona, mentre i 5Stelle sono un gruppo, che ha i problemi tipici di ogni gruppo, tra cui quello di non poter parlare con una sola voce. Forse è per porre rimedio a questo “difetto” che, come dimostrano le vicende dello stadio romano, Beppe Grillo è tornato prepotentemente in prima linea.