Italicum e vincolo di mandato

“L’unico modo per eliminare l'”effetto cadrega” è il vincolo di mandato. Chi tradisce gli elettori e non è più d’accordo con il programma per il quale è stato eletto, se ne torna a casa e lascia spazio al primo dei non eletti”. Si chiude così il sintetico post che Beppe Grillo ha dedicato agli eletti nelle fila del MoVimento che in questi anni hanno deciso di lasciare i 5 Stelle (o sono stati costretti a farlo).

Dice Grillo che è necessario il vincolo di mandato, ossia che gli eletti rispondano in maniera costante del loro operato a chi li ha eletti. Tale vincolo è ritenuto incompatibile con i principi democratici da parte del Consiglio d’Europa.

A tal proposito, non sembra corretto il richiamo alla Costituzione portoghese, fatto recentemente da Luigi Di Maio. In Portogallo, infatti, il parlamentare decade dal mandato se si dimette dal gruppo parlamentare del suo partito e contemporaneamente si iscrive al gruppo parlamentare di un altro partito. Si vuole così sanzionare il comportamento di chi decide in maniera volontaria di abbandonare il partito col quale si è presentato alle elezioni per iscriversi a un altro (chi invece si dichiara indipendente resta parlamentare). Non è dunque assolutamente previsto che chi viene espulso dal proprio partito perda il seggio, così come non è possibile obbligare i propri parlamentari a votare o dichiarare solo quello che viene deciso dai vertici. Dunque, al momento il sistema auspicato da Grillo non ha cittadinanza europea e, visto il già ricordato parere del Consiglio d’Europa, ben difficilmente l’avrà in futuro.

Ciò non impedisce di chiedersi se tale assenza sia un bene o un male. Dal punto di vista di Grillo è sicuramente un male. Rivolge infatti questo affettuoso pensiero a chi ha abbandonato i gruppi a 5 Stelle: “Ognuno di loro si è ancorato alla sua poltrona e al suo stipendio fregandosene di essere stato eletto con un simbolo e un programma che hanno tradito e senza il quale non sarebbero mai arrivati dove sono”.

In altre parole, Grillo ritiene che chi è stato eletto con i 5 Stelle non sia diventato parlamentare per meriti propri ma esclusivamente per merito del gruppo da lui capitanato. Pertanto, è del tutto comprensibile che pretenda fedeltà assoluta da persone che, dal suo punto di vista, dovrebbero essergli eternamente grate.

Il divieto di mandato imperativo si basa però sull’idea che il parlamentare debba essere fedele alla Nazione e non al partito. Evidente la difficoltà di conciliare due visioni diametralmente opposte.

A rendere ancora più complessa una questione che non riguarda solo Grillo c’è poi la recente Sentenza della Corte Costituzionale sull’Italicum. Ipotizziamo che un partito ottenga il 40% dei voti richiesti a far scattare il premio di maggioranza: cosa succede se parte dei deputati, non avendo vincolo di mandato, decide di non sostenere più il governo guidato dal partito che li ha candidati? In che modo si giustificherebbe la presenza di parlamentari non “eletti” ma “ripescati”, qualora non risultassero più in quota alla maggioranza? Sarà ancora possibile cambiare governo durante la legislatura (finora in quella attuale si sono alternati tre presidenti del consiglio) e, in tal caso, sarà il segretario del partito di maggioranza a prendere le decisioni (introducendo di fatto il vincolo di mandato)?

Tutti interrogativi che la Corte costituzionale non si è posta, forse perché non ha ritenuto verosimile l’ipotesi che ci sia una forza politica in grado di raccogliere da sola il 40% dei consensi.