A chiusura del 2016 arriva l’importante Sentenza n. 25201 della Cassazione in materia di licenziamento per giusta causa. In estrema sintesi, i giudici hanno stabilito che non è loro compito entrare nel merito delle scelte imprenditoriali: è stata pertanto ritenuta legittima la decisione di licenziare un dipendente al solo fine di incrementare i profitti aziendali.
Gli stessi giudici si sono invece riservati il compito di verificare la reale sussistenza dei motivi indicati dall’imprenditore. Non si può dire a Caio “ti sto licenziando per aumentare i profitti” se poi si scopre che è una scusa per assumere Tizio il giorno dopo.
Quest’orientamento “liberale” della Cassazione è ancora minoritario. Come spiegano alcuni esperti al FattoQuotidiano sarebbe opportuno un intervento delle Sezioni Unite, per capire se d’ora i giudici dovranno tener necessariamente conto di questo principio e non più di quello per cui – sempre in estrema sintesi – si può licenziare soltanto per evitare il fallimento dell’impresa (i due orientamenti sono esposti con chiarezza nelle motivazioni della Sentenza, che si possono leggere a questo link).
La lettura di tali motivazioni permette di fare alcune considerazioni di carattere generale. I giudici dicono infatti che non ci sono mai state delle ragioni – di carattere giuridico – che hanno imposto una lettura delle norme sui licenziamenti ad esclusivo vantaggio del lavoratore. Il fatto che, finora, quasi tutte le cause di licenziamento si siano risolte a favore del lavoratore non è dunque dipeso dalla legge, ma dalla personale concezione di giustizia dei magistrati: i quali hanno generalmente preferito tutelare il dipendente licenziato (considerato parte debole a prescindere) rispetto al datore di lavoro.
La reazione degli imprenditori è stata quella di limitare i contratti a tempo indeterminato. Si può dunque dire che aver difeso il posto fisso di alcuni lavoratori ha avuto come conseguenza l’affermazione su larga scala del precariato (dai vari cococo e cocopro ai voucher di cui si parla oggi).
Lo stesso jobs act del governo Renzi è stato presentato come un modo per consentire alle imprese di assumere a tempo indeterminato, senza il terrore di non potersi più liberare di un lavoratore sgradito. Versando un semplice indennizzo, è oggi infatti possibile licenziare anche senza giusta causa.
Si può pertanto dire che, se i giudici avessero tenuto da subito in considerazione anche le esigenze dell’impresa, non si sarebbe probabilmente arrivati a un sistema nel quale è diventato possibile licenziare Caio per fare posto a Tizio.
C’è poi chi sostiene che anche il sistema dell’indennizzo sia una limitazione della libertà d’impresa. “Con i miei soldi assumo chi voglio” dicono (o perlomeno pensano) gli imprenditori. Sarebbe in effetti opportuno valutare la possibilità d’introdurre un doppio binario: alle aziende che non hanno mai usufruito di alcun incentivo pubblico potrebbe essere concessa la possibilità di gestire in piena autonomia la forza lavoro. Chi invece sceglie di utilizzare soldi pubblici dovrebbe tener conto delle esigenze della collettività.
Se non altro sarebbe un modo per distinguere gli imprenditori dai “prenditori” di contributi.